Il respiro e lo sguardo: un saggio di Gian Mario Villalta sulla poesia di Stefano Dal Bianco

Esercizi d’oblio, esercizi di presente

Si può dire che i ricordi siano immagini e parole, singoli fram­menti o intere sequenze, conservate in una specie di archivio di cui disponiamo. E si può dire che la memoria sia l’archivio stes­so, il suo modo di trattenere e collegare i ricordi, di trasformar­li, anche.

Se si può dire così, potrebbe anche succedere qualcosa di con­trario all’opinione più immediata, che vuole che si conservi la me­moria di una persona quanto più se ne «usa» il ricordo, mentre sa­rebbe destinato all’oblio chi non viene spesso ricordato.

Prendo il verbo «usare» da Il posto di Nelly, in Ritorno a Plana­val di Stefano Dal Bianco, dove dice:

Quelle cose che erano tue o nostre io le ho usate fino alla consunzione ed è inutile ripetermi che è stata una buona mossa, che avrei sbagliato a fare gli altarini, ora quelle co­se sono diventate uguali alle altre, a quelle che non esistevano allora e che per me non hanno nessun senso, le ri­spetto perché sono fatto così e basta ma non sono non sa­ranno mai Nelly.

Molto tempo fa, quando è morta giovanissima in un incidente, Nelly ha lasciato la bellezza e l’amore dei ricordi e una ferita nel­la memoria. Conservare intatti i ricordi di Nelly, «fare gli altarini», ovvero non usarli: così i ricordi avrebbero potuto tenere aperta la ferita nella memoria. Mentre usarli ha significato modificare la memoria, sanare la ferita.

Si chiama «elaborazione del lutto», qualcosa di ben noto nel­l’antropologia umana.

Quello che nell’«elaborazione del lutto» fatica a venire in rilie­vo, perché si pensa che la psiche sia ben lieta di liberarsi dal do­lore, risulta essere il legame tra identità personale e sofferenza: fin­ché soffro per un lutto sono ancora io, il vuoto che mi ossessiona è ancora al suo posto, al posto della persona che mi appartiene, è ancora l’amore che mi fa essere me stesso. Se perdo anche la sof­ferenza, perdo veramente tutto, e con questo «tutto» anche (una parte di) me stesso.

Scrive Dal Bianco, alla fine del «processo di elaborazione del lutto» di cui si parla in questa prosa poetica:

Per questo ora mi sento inutile, non sono più il tuo custo­de, ed è solo adesso che, vigliaccamente, ti regalo agli altri, perché ho capito finalmente, povero idiota, che niente ti può fermare perché sei già dappertutto.

È così che amare te è diventato amare l’aria e il mondo in cui le cose vi si immergono, quella naturalezza che sicura­mente anche tu avevi di ergerti nel mondo, ma che io non posso più ricordare, che io non ricordo più.

Le righe che abbiamo riportato vengono poste a introdurre l’ul­tima sezione del libro Ritorno a Planaval, che dà il titolo all’inte­ro volume, e che una logica semplice vorrebbe fossero invece in apertura.

La prima sezione, infatti, Una vita nuova, con la sua prospetti­va di scelte diverse e rinnovate dimensioni affettive, dovrebbe lo­gicamente prendere avvio dopo che il lutto è stato consumato. Si dice comunemente infatti, in rapporto a un lutto (una grave per­dita, quale essa sia), che prima occorre «uscirne fuori», e poi si po­trà iniziare a «rivivere». Ma forse questa logica è troppo banale, e non tiene conto dei movimenti profondi della psiche, della sua struttura poetica.

Poeticamente viene in luce, invece, nella struttura del libro, una doppia cronologia, mediante la quale capiamo che la memoria è il corpo che vive, e i ricordi ne sono la materia costantemente chia­mata in causa: iniziamo a «rivivere» nel momento in cui comin­ciamo a rigenerare la memoria, e perciò ad accettare che i ricordi vengano intaccati. Paradossalmente, non è la volontà di nuova vi­ta che ci aiuta a «venirne fuori», ma la distruzione di un’identità, di quell’«io» che non può conservarsi senza conservare intera­mente il lutto.

Dal Bianco, con un gesto di grande forza innovativa e allo stes­so tempo pieno di tradizione, lega questa personale esperienza del lutto alla parola poetica, in un tempo in cui essa era sentita come esperienza della perdita, della deprivazione, del distacco.

Un nuovo sentire si dà, all’inizio del libro, ancora permeato da una perdita di senso e di parola che è interamente compresa con la storia di sé come poeta. Prende avvio dalla consapevolezza della violenza del cambiamento, imposta dal dolore, ma nel pre­sente non sa trovare che indizi, e conosce veramente soltanto il passato:

È successo che avevamo rinunciato a sognare, e a ricono­scere il profilo e il colore delle cose. Attraverso di noi cre­sceva la stagione peggiore. Un principio di immobilità ave­va assunto i connotati della concentrazione. Pensavamo che rimanere all’erta fosse necessario per non farci trasci­nare dall’onda della vita altrui. E restavamo fermi, e se qualcuno ci chiedeva: Tu cosa pensi?, noi pensavamo che non volevamo pensare niente.

La sezione iniziale, Una vita nuova, ha il suo incipit con il bre­ve brano che ho citato.

Questo «noi» identifica una generazione di poeti, o almeno una condizione in cui essi sono venuti a trovarsi, dentro un’idea della poesia intesa come resistenza e reazione nei confronti di un tem­po ostile, rispetto al quale pareva giusto (anzi, pareva la scelta mi­gliore) coltivare la propria ostinata estraneità. Un’estraneità fatta di parole chiuse, di rigore formale sul limite della possibilità di di­re. Le precedenti sillogi di Dal Bianco, La bella mano e Stanze del gusto cattivo, ne sono testimonianza.

E questa idea del limite viene ripresa nella poesia che fa da prolo­go all’intero volume, e che si intitola I sensi. È però il limite di un ini­zio, un movimento che inizia dal sentire e accetta il rischio di anda­re incontro al poco, quando è poco, e al tantissimo della vita, dalla prospettiva della propria singolarità. Come a dire che, se c’è ancora un riconoscersi in una comunità di parola e di forme, questo deve ve­nire dalla mancanza di comunità, dal non riuscire più a confidare in un ruolo di continuità e contrapposizione con quanto già dato.

I! calco dantesco ha infatti nel titolo della prima sezione una va­riante significativa: non «la» vita nuova, ma «una» vita nuova, pri­vata di qualsiasi accredito di esemplarità, lontana da qualsiasi al­legoria, è fiducia e rischio nel!’ essere e nel dire.

Una doppia cronologia, dicevo. Infatti non c’è un inizio, poiché il movimento che porta all’effettiva elaborazione del lutto (che è lutto per una morte, ma anche pér un tempo vissuto e per la sua poesia) è sentito come un rifiuto a profanare il lutto, come un consegnarsi al senso della perdita (<<fammi dei morti e io sarò sal­vato» dice, in chiusura, la poesia I sensi).

Il tempo della consapevolezza di doversi donare a ciò che si è perduto coincide con il tempo dell’inizio del rinnovamento, così come, verso la fine del libro, il tempo della vita rinnovata coinci­de con la coscienza di una perdita di sé irrimediabile.

Sulle pagine della rivista padovana «Scarto minimo», che Dal Bianco, con Mario Benedetti e Fernando Marchiori, aveva propo­sto alla fine degli anni Ottanta, era già adombrato questo tema: era necessario abbandonare emulazione e reattività nei confronti dei padri e dei fratelli maggiori, bisognava rinunciare, in pratica, al meccanismo evolutivo della poesia novecentesca.

Perché? Perché il meccanismo si era inceppato in quell’insieme di fenomeni noto come avvento della postmodernità.

Già il nome della rivista, scarto minimo, era eloquente: la linea por­tante della poesia novecentesca, di matrice simbolistico-avanguardi­sta, aveva trovato nello Strutturalismo – e negli altri condòmini del­la critica stilistica – un suo cardine nell’idea di scarto rispetto alla nor­ma linguistica, cioè di una poesia che si distanziasse dal parlare co­mune, identificandosi come lingua speciale. Una critica che, pur con­sapevole dell’antico legame della nozione di «scarto» con il sublime, ovvero con una inconsueta personalità di autore, veniva a ridurre il poeta stesso a una funzione interna del testo, definendolo in alcuni casi con l’epiteto tecnico-burocratico di «operatore».

L’ipotesi di ridurre al minimo lo scarto apriva invece a una poe­tica incentrata sulla qualità dell’esperienza vissuta del poeta, pur rinunciando a ogni aureola, quindi all’eccezionalità del gesto este­tico, ma anche a una sua pretesa autenticità ottenuta per via in­tellettuale dall’ accettazione dello scacco relativo a questa rinuncia.

Una lingua, dunque, che fosse poetica per intensità del vissuto, capace di espressione lirica per questo motivo, e non per la quan­tità di «sorpresa» linguistica che presentava. Perciò lo scarto ci sa­rebbe stato, perché mai sarebbe risultata espressione banale, dato che l’esperienza di cui parlava non lo era, ma questo scarto sareb­be dovuto risultare incorporato all’espressione intera, quindi mi­nimamente registrabile in termini di infrazione della naturale vo­cazione della lingua.

Progetto embrionale, quello di «scarto minimo», che ha portato rapidamente i suoi protagonisti sulla soglia di una crisi. Un lungo silenzio di mutazioni ha seguito la fine della rivista.

Per Stefano Dal Bianco, come per gli altri due fondatori del fo­glio, la ridefinizione di quel primo progetto è avvenuta attraverso diversi passaggi che fanno comprendere a noi qualcosa di impor­tante: i mutamenti nell’ambito della forma non provengono dalla sola intelligenza dei problemi vigenti nell’ambito dell’arte e della sua comunicazione, ma comportano altrettanti mutamenti sul pia­no della percezione, del sentire, della configurazione di senso che si dà al proprio stare nel mondo.

Stefano Dal Bianco, con Ritorno a Planaval, ha voluto redigere il diario di questo processo, ancorando tenacemente il senso degli eventi della propria esistenza all’evoluzione della sua ricerca poetica.

Mi sento di dire che solo se lo leggiamo in questo modo tro­viamo ragione dell’intera sostanza del libro, della sua ricerca di tensione tra la semplicità lessicale e l’altezza vertiginosa del tono, tra l’apparente occasionalità tematica e l’unità psichica profonda, tra la concentrazione estrema della «prosa» e la distensione affabi­le dei versi.

E quando troviamo una poesia come questa:

 

Ho due lenzuola vecchie di vent’anni

e una federa a fiori

che tengo in casa per gli amici intimi,

usandole sempre e ogni volta pensando

e pregando, temendo lo strappo

che potrebbe seguire il lavaggio,

ogni volta congetturando

un utilizzo diversificato dei ritagli

come tendina, fazzoletto, come involucro antipolvere,

come sacca per le pantofole.

 

I miei amici non lo sanno che ogni volta un poco tremo

a vederli dormire beati

nel sudario di un passato solo mio

che ogni volta per loro si assottiglia e ogni volta

grazie a loro, mi tortura.

 

 

O come questa:

 

Stando di fronte e sotto questo monte

se l’aria è ferma lo si può abbracciare

ma l’occhio non lo può mettere a fuoco.

 

È come se tutto vibrasse

come se la terra si muovesse, tutto intorno

e il torrente sul punto di spaccare tutto, urlando

prestando la sua voce trattenuta ai larici

che sono nella nebbia, ci chiamasse

ci chiedesse di restare per sempre.

 

Abbiamo fatto finta di volerlo scrivere

e ce ne siamo andati, per paura.

 

Quando troviamo poesie così limpide e prive di affettazioni stilistiche, dobbiamo pensare che è la conquista di una porzione di si­lenzio, ed è l’abbandono di tanta parte di ciò che è già inteso come «poetico», e che però non percorre la strada di un sentire nuovo.

 

(di Gian Mario Villalta, Il respiro e lo sguardo, BUR, 2005

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