L’Arcano Fascino dell’Amore Tradito: Dario Bellezza raccontato da Fabrizio Cavallaro

Dario Bellezza è stato tra i poeti più importanti, in Italia, degli ultimi cinquant’anni del Novecento. Forse il più importante. È giusto, a mio avviso, rendergli – senza peraltro aggiungere nulla per ragioni che non attengano strettamente alla Poesia – il giusto onore e peso. Pasolini usava dire che solo post mortem, così come per il “girato” di un film, quando interviene la fase finale del montaggio, si può dare una esatta valutazione, un senso compiuto all’esistenza di chiunque. E ciò vale, a maggior ragione, per un artista.

Certo è che, durante la sua non lunga vita, Bellezza ha fornito spesso, senza risparmiarsi, anzi direi soddisfatto dell’aura a lui congeniale di provocazione e “scandalo“, episodi riconducibili ad una smania di autodistruzione e di risollevamento dalle proprie ceneri, da lancinata araba fenice delle belle lettere, non comune nel crogiuolo spesso poco edificante dei rapporti tra letterati, e in generale nel panorama della letteratura non solo in Italia. Definito spesso il Genet italiano (ma crediamo più riconducibile alle visioni poetiche dei suoi maestri e amici Pasolini e Penna, o anche del greco Kavafis) Bellezza abbandonò da quasi subito un certo maledettismo rimbaudiano appioppatogli più per semplicità di definizione che per reale congenialità col massimo poeta francese (che Bellezza tradusse, non senza un aiuto “corsaro”).

Visse buona parte dei suoi ultimi anni nei pressi di Campo de’ Fiori, nel cuore di una Roma papalina e incenerita dal consumismo: luoghi e persone ossessivamente ricorrenti nelle sue poesie (basta ricordare tra tutti il tormentato rapporto con Elsa Morante) come la sua casa ai Pettinari, vicino Ponte Sisto (a un passo dalla casa che per qualche tempo Dario aveva condiviso con la poetessa Amelia Rosselli), nella stessa strada dove abitò Alberto Sordi.

Durante il ’68, il giovane Bellezza fece i conti con la speranza d’una palingenesi possibile solo se vissuta in maniera strettamente autoreferenziale, di impegno reale e di subconscio; in ciò disperatamente polemico (come Pasolini) con le idee rivoluzionarie di quegli anni. Entrambi vivevano le proprie “passioni recidive“. Entrambi sapevano, avevano intuito che la rivoluzione doveva prendere spunto da una mozione antropologica, e ch’era indispensabile fare i conti con l’abbrutimento e la perdita del naturale istinto vitalistico, causati dall’omologazione culturale della società italiana.

In Bellezza, il discorso rimane meno sul lato “politicosociale“, com’è invece in Pasolini. Più vicino, come dicevamo, al “culto” erotico di Sandro Penna e di Kavafis, vissuto tra “malandri” e marchettari del Colosseo o del Circo Massimo, incontri notturni e diurni con gli angeli della vita e della morte, pronti a impartire, con consapevole durezza e dolcezza lacerante, il colpo di grazia al “corpo lasso della poesia“. Inevitabile che da tale ferita sgorghi materia sanguinolenta, in forma di parole, unita a un senso di colpa di stampo controriformistico – la scena deflagrando inevitabilmente in un’autoreferenzialità esasperata e esasperante, mai finalizzata al puro scandalo, in cui il poeta muove fin dall’inizio i suoi passi, da Invettive e licenze a Libro d’amore, da Lettere da Sodoma al postumo Proclama sul fascino.

Scrivo, un po’ di getto, soprattutto per me stesso, seguendo il passo stentante del ricordo. Un pomeriggio di sole, seppure fosse dicembre inoltrato: io e Dario a braccetto per il centro di Catania. Lui sempre querulo, lamentante del traffico e della puzza dei gas di scarico. Aveva deciso, per entrambi, di scantonare nelle traverse laterali, per non respirare quel veleno (quasi fosse possibile evitarlo). Era sieropositivo, sapeva di esserlo. Con qualcuno lo nascondeva, ma credo lui sapesse ch’io sapevo. Poi comperammo dei mandarini da un fruttaiolo di strada. Lo ricordo, poi, nell’androne dell’albergo dov’era alloggiato, venuto a Catania dietro invito del circolo a cui appartenevo in quei mesi, per parlare di Pasolini. In quell’occasione, parlò del libro che stava scrivendo, che avrebbe intitolato Il poeta assassinato, in cui argomentava la propria tesi sull’omicidio politico dell’amico e maestro. Lo avevo raggiunto nelle prime ore del mattino. Aveva in mano un libro di Busi: lo aveva letto, almeno in parte, poi non ce l’aveva fatta più. Dario era così, ingiusto a volte, ma spesso caustico nei giudizi, e sinceramente devoto alla letteratura meno che alla vita. E autentico, pure nei suoi dentati giudizi critici. Amava i pittori. Uno di questi, un siciliano, aveva realizzato un’intera mostra dipingendo le stanze della casa romana del poeta in via de’ Pettinari. Amava Schifano, visceralmente – aveva anche scritto per lui. E poi, il poeta “sibarita” (definizione datagli da Dario) Gaetano Dimatteo, calabrese, di cui spesso Bellezza fu ospite nella Lucania tanto amata, popolata di ragazzi-angeli con la catenina al collo e l’orecchino vistoso al lobo; ultimi sopravvissuti nel feroce incubo dell’omologazione antropologica paventata lucidamente da Pasolini.

Salto un po’ a caso, seguendo le intermittenze del ricordo. Gli telefonavo, a volte, la sera, negli ultimi mesi della sua vita. I mesi dell’angoscia, del corpo e dello spirito. Aveva lasciato la casa dei Pettinari. Mi rispondeva il poeta romano Maurizio Gregorini, a cui Dario aveva chiesto compagnia e assistenza notturna. Non era più autosufficiente. E l’angoscia di morire, i fantasmi del passato, lo opprimevano. Qualche mese prima s’era suicidata Amelia Rosselli, Dario l’aveva saputo. Aveva commentato in maniera laconica ma addolorata. Ormai era preda del dolore morale. Pregava. S’era avvicinato alla religione, negli ultimi anni. La sua anima trafitta lo esigeva. Si interessava anche di buddismo. Mi ricordo, con un certo fastidio, la sua partecipazione ormai storica ad una puntata del programma televisivo Mixer, in cui si scontrò violentemente con Busi. Chissà in quanti allora, avranno capito la portata dilaniante e reale, al di là della forma, delle parole di Dario Bellezza contro lo scrittore di successo.

Bellezza sembrava, a più tratto, tradire una tradizione poetica che l’aveva visto nascere ed essere riconosciuto, a livello anche internazionale. Invece, in lui era sempre urgente, direi pressante, l’esigenza di un rinnovamento che denunciasse i limiti dello stile, le manchevolezze della letteratura; nel nome di un riscatto risolvibile solo nell’esistenza, intravedibile, a tratti, nei versi, nella certa ispirazione, nella fascinazione tenerezza dei suoi versi a volte rastremati.

Ogni tanto, chiedo ad amici che l’hanno conosciuto, che hanno condiviso esperienze di vita con lui, di raccontarmi aneddoti dei giorni felici, come i viaggi in Maghreb, con il poeta Enzo Salsetta che fu anche suo ospite a Roma. Salsetta ebbe modo di conoscere alcuni dei ragazzi che componevano la “corte dei miracoli” di Dario, insieme a guitti e zie d’ogni risma e provenienza: a volte ne portava qualcuno con sé, nei viaggi, o nelle cene serali con gli amici di sempre come Renzo Paris, Enzo Siciliano, Elsa Morante, lo stesso Pasolini, Dacia Maraini e Alberto Moravia; quest’ultimo – insieme a Pasolini – divertito dalle stramberie cerimoniali e clownesche a cui anche Bellezza, volentieri e sempre con grande raffinatezza mista a un certo sadismo d’occasione, si abbandonava. I ragazzi: angeli e carnefici dell’eros che diveniva poesia della carne e sinfonia creaturale dal fascino sinistro e inquietante, solari e oscuri insieme, spesso drogati, marchettari, delinquentelli, sempre bellissimi, nel loro rapporto dolente e controverso con l’esistenza, nella loro fame di vita spesso lacerante e stremata. Ne aveva amato qualcuno, visceralmente. Erano stati la sua “croce e delizia“. Specialmente uno, poi finito morto per droga, a quanto ne so. Lo aveva conosciuto alla Stazione Termini. Se l’era portato in casa. Un rivoluzionario di sinistra, eroinomane, amabile, e destinato a perdersi per istinto autodistruttivo. Si chiamava Marco. Per lui, e per qualcun altro come lui, scrisse le sue poesie forse più belle, riunite poi in Libro d’amore. Dario era sicuro che fosse stato lui a contagiargli l’aids. Forse era vero, forse no. Ma non importa, ora.

Dario ha vissuto immerso nella vita, spendendo, anzi dilapidando poeticamente la sua vita, fitta di errori e di illuminazioni. In ciò, superbamente eroico, catastroficamente autodistruttivo. Resta la sua poesia, alta, sublime, «di un impegno immenso». I poeti andrebbero amati in vita, come recita una poesia di Vivian Lamarque. Invece l’Italia uccide i propri poeti, ed oggi è più che mai un paese «orribilmente sporco».

Rileggere Dario Bellezza, oggi, è più che mai atto dovuto a un grande poeta, testimone di un secolo, cantore della degradazione ma anche del sublime potere salvifico della poesia. Per questo ho chiesto a poeti e scrittori, alcuni dei quali hanno conosciuto e frequentato in vita Dario, altri che l’hanno incrociato solo nei suoi scritti, di rendere libero omaggio all’esistenza di un uomo che fu poeta in quanto, (come Pasolini, Penna, Amelia Rosselli, o Giorgio Caproni) ha incarnato in vita l’incommensurabile disparità con se stesso: dell’essere tale, cioè uomo e artista senza scissioni, e non un faccendiere di parole e versicoli discretamente confezionati, da buoni artigiani delle lettere (nel migliore dei casi). Può solo far bene, in anni lacerati e insulsi come questi, tentare la comprensione di ciò che Bellezza è stato, del suo mondo, di ciò che ha rappresentato nelle proprie insolubili, irrinunciabili contraddizioni; tentando di addentrarsi, perché no?, in un’Italia che certo non è più. Che non può più tornare.

 

(Introduzione a L’Arcano Fascino dell’Amore Tradito, Fabrizio Cavallaro, Giulio Perrone Editore – collana L’antologica)

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